Da oltre due decadi, la Game Developers Conference svolge il ruolo di catalizzatore per l’intera industria videoludica. La comunità degli sviluppatori, nel suo variegato complesso, s’incontra ogni anno a San Francisco per discutere il passato, presente e futuro del medium interattivo. Detto altrimenti, la GDC non è una fiera (grazie al cielo!), ma una conferenza. L’enfasi non è tanto sulla promozione (dei prodotti prossimi venturi), ma sulla riflessione. Per esempio, una delle sessioni più interessanti dell’ultima edizione che si è tenuta tra il 18 e il 22 febbraio 2008, era intitolata “The Future of Story in Game Design” (‘Il futuro della storia all’interno del game design’).
Chi segue i game studies, saprà benissimo che il tema è stato esaminato da ogni angolazione possibile da ricercatori di ogni orientamento e formazione. Tuttavia, il suo continuo ripresentarsi – nell’agone accademico come in quello giornalistico, tra i produttori come tra i fruitori – attesta che l’argomento è sempre caldo, anzi, rovente. In un panel moderato dalla game designer e scrittrice Deborah Todd, un gruppo di programmatori e sceneggiatori si sono dati battaglia – metaforicamente parlando – sul sempreverde tema della funzione della narrazione nei videogame. La conversazione è stata dominata da due figure chiave: Denis Dyack di Silicon Knights (Too Human) e Matthew Karch di Saber 3D (Timeshift). Per quest’ultimo, la componente narrativa di un videogame è del tutto ridondante.
“La storia – ha dichiarato Karch – è subordinata al gameplay e non viceversa. È una questione di priorità”. Per Dyack, questo atteggiamento è sintomatico di un equivoco di fondo nonché la causa principale della marginalizzazione del videogame nei bassifondi della cultura. “Gameplay e storia non sono antitetici: non ha senso attribuire al medium dei limiti che in realtà sono del designer”. Dyack ritiene che il videogame stia oggi vivendo una profonda trasformazione, un’evoluzione paragonabile a quella che il cinema ha sperimentato tra gli anni trenta e quaranta, quando è passato da mera forma di intrattenimento ad espressione artistica a tutti gli effetti.
“La tradizionale distinzione in generi – RTS, RPG, FPS e così via – profetizza Dyack (nella foto) – è destinata presto a scomparire, dato che una simile ripartizione enfatizza il datum tecnologico (per esempio, il ruolo della macchina da presa virtuale negli sparatutto in soggettiva) rispetto alle componenti narrative. Ma la tecnologia sta diventando ‘invisibile’ dato che i designer hanno oggi a disposizione un potenziale di calcolo enorme se paragonato a quello di pochi anni fa”. Secondo il leader di Silicon Knights, in un prossimo futuro parleremo di giochi in termini di dramma, azione, horror, esattamente come facciamo oggi per il cinema o la letteratura, “forme espressive mature”.
Al che Tim Willits (nella foto) di id Software, uno dei programmatori di Doom (1992), ha ribattuto che sopravvalutare il racconto rispetto alla performance del giocatore significa dimenticare la natura agonistica e competitiva del medium: “Un tratto peculiare che rende il videogame unico all’interno del panorama mediale”. Matt Costello (Polar Productions), sceneggiatore di titoli come The 7th Guest, Just Cause e ShellShock: Nam ‘67 ha aggiunto che l’evoluzione del cinema presenta diverse affinità con quella del videogioco ma anche profonde differenze. Willits ha aggiunto che “la creazione di una pellicola e lo sviluppo di un videogioco sono due processi radicalmente differenti: il cinema possiede una coerenza produttiva che il questa industria si sogna”. Nonostante la varietà di opinioni, la maggior parte degli intervenuti hanno concluso che è vitale coinvolgere lo sceneggiatore sin dalle prime fasi della produzione, dato che fin troppo spesso le software house sviluppano tool e tecniche innovative limitandosi ad appiccarci sopra una “storia” in modo posticcio.
Ma ancora una volta, Karch non ha celato il proprio scetticismo: “Quello che mi affascina di giochi come F.E.A.R. o Timeshift è la possibilità di manipolare il tempo e lo spazio in modo del tutto soggettivo... Non mi interessa minimamente che uno sceneggiatore mi racconti le origini di questi super poteri: questo compito può essere tranquillamente assolto da un fumetto, da un film o da un romanzo. Il videogame, tuttavia, è l’unico strumento che mi consente di diventare un super eroe”. Al che Dyack ha accusato Karch di promuovere lo stereotipo che il videogioco sia “l’equivalente interattivo di un film di Jerry Bruckheimer e Michael Bay, un cinema povero di contenuti e ricco di grassi”. Karch non si è lasciato intimidire, ribadendo che la cultura pop “è McDonald’s e alla gente McDonald’s piace. Se il mercato vuole McDonalds perché insistere con la nouvelle couisine?”.
A questo punto la tensione in sala era palpabile, ma Dyack ha risolto la querelle con una battuta “stai forse affermando che il compito dei game designer è offrire un gameplay ‘super-sized’, formato gigante?” (Karch non ha colto il riferimento al documentario di Morgan Spurlock). Costello ha fatto notare a Dyack che i blockbuster hollywoodiani – anche quelli apparentemente più vacui – sono frutto di uno studio e di una pianificazione attenta: “ogni singolo elemento viene testato a lungo, anche perché il cinema non può permettersi di distribuire delle patch per correggere eventuali errori. Nei videogame non esiste un analogo livello di professionalità, ma si tratta di un obiettivo raggiungibile in pochi anni”.
Karch ha ribadito che anche i capolavori riconosciuti – per esempio Half-Life 2 – e’ un gioco dai forti contenuti narrativi “che consente al giocatore, durante le cut scenes, di arrampicarsi sui muri... Dov’e’ il realismo?” Dyack ha risposto che Karch confonde “la diegesi con la storia”. Willits, da parte sua, ha freddato Dyack con una battura sagace: “Alcuni game designer si prendono troppo sul serio...Parliamo di vendite, piuttosto...”. Ma il direttore di Silicon Knights non si e’ lasciato intimidire: “Bioshock e Mass Effect parlano da soli... Un designer puo’ scegliere se raccontare una storia profonda oppure offrire bubblegum ai giocatori”. Karch ha dichiarato di preferire il secondo. Secondo Costello, “Doom prevede una stoai: ci sono dei mostri che cercano di ucciderci. Cio’ che rende un simile racconto coinvolgente non e’ tanto il contenuto quanto l’esecuzione... Prendiamo Aliens di Cameron. La storia non e’ originale, ma la diegesi mozza il fiato!”.
Questo breve, ma intenso scambio, attesta la natura diversificata dell’industria videoludica, erroneamente etichettata come un’entità monolitica che promuove un numero ridotto di filosofie di design. Non basterà certo un dibattito di sessanta minuti a risolvere la questione annosa del ruolo della narrazione nei videogame, ma eventi come la GDC ci aiutano a fare il punto della situazione e a capire in quali direzioni si sta orientando l’industria creativa più vibrante che esista. Queste conversazioni, inoltre, ci ricordano che dietro a un videogame ci sono persone, idee e passione e non solo marketing, conglomerati e multinazionali.
Articoli di approfondimento
Saggio: Riesaminando la storia di Half-Life di Bryan-Mitchell Young
Book: Writing for Games di Steven Ince
Articolo: Timeshift postmortem su Gamasutra
Immagine: Too Human (Silicon Knights/Microsoft, 2008, Xbox 360)
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