Con Cloverfield, la convergenza estetica, linguistica e persino fenomenologica tra videogame e cinema raggiunge un nuovo livello – benchmark – e insieme lascia presagire ulteriori sviluppi. Esaminiamo in dettaglio alcune implicazioni di questa interessante contaminazione. Sul piano narrativo, la contiguità tra Cloverfield e il videogame si realizza ad almeno tre livelli: punto di vista soggettivo, uso del tempo reale e ripresa persistente. Nel film di Matt Reeves, il narratore è l’uomo con la macchina da presa, ovvero Hudson 'Hud' Platt (TJ Miller). Nel terzo capitolo del seminale Cinema come arte, David Borwell e Kirstin Thompson (2003) definiscono questa convenzione “narrazione ristretta” o “limitata” osservando che essa accomuna tutti quei racconti filmici nei quali lo spettatore e il protagonista condividono le stesse informazioni in merito a una situazione contingente. In questo caso, infatti, le informazioni accessibili allo spettatore sono generate quasi esclusivamente dal personaggio-enunciatore. Si tratta di un approccio originale per quanto concerne i monster movie considerando che i capisaldi del genere, Godzilla in primis, normalmente adottano un approccio onniscente, top-down, olistico. Cloverfield sfrutta altri artifici – per esempio il riscorso alle news televisive, comunicazioni radio tra i soldati o telefonate di amici/parenti – per fornire allo spettatore (e al suo surrogato sullo schermo) informazioni contestuali (per tacere del framing iniziale-finale: “documento riservato dell’esercito degli Stati Uniti”).
Si noti che il videogame utilizza una strategia simile per fornire all’utente informazioni di carattere contestuale. Una delle strategie più comuni é la cut scene. Com’è noto, Le cut scene – dette anche cinematics o in-game movies – sono sequenze animate non-interattive che incorniciano, inframezzano ed interrompono i momenti d’interazione vera e propria di un videogame (nota1). In tali frangenti, l’utente non può esercitare alcun controllo sulla presentazione degli eventi predisposti dall’autore (il game designer). In molti casi, al fruitore è concessa la possibilità di rinunciare alla visione integrale della sequenza: premendo un tasto dell’interfaccia di controllo può passare immediatamente alla fase interattiva successiva (“skip cinematics”). Alcuni videogame – una minoranza, ma una minoranza significativa (nota 2) – non contemplano tale opzione. In Cloverfield come nei videogame action e negli sparatutto in soggettiva, il numero ridotto di informazioni e la necessità da parte dei protagonisti di esplorare spazi che sono insieme familiari e misteriosi (per via della presenza di entità ostili e letali), accresce l’effetto di immersione, tensione e coinvolgimento.
Non solo: come in uno FPS o in un action in terza persona, lo spettatore segue – per l’intera durata del racconto – ogni spostamento del protagonista. Detto altrimenti lo spettatore é la macchina da presa che (in)segue i personaggi. Non solo: in Cloverfield la storia è raccontata in tempo reale, esattamente come in un videogame, un medium che conosce solo una cronologia, quella del presente narrativo (nota 3) . Il tema del racconto – l’attacco repentino, imprevisto di un mostro alla metropoli americana par excellence – è tipicamente sci-fi e la fantascienza, da tempi non sospetti , è il trait d’union privilegiato tra cinema e videogame (nota4). Anche sul piano diegetico, la narrazione filmica e del tipico videogame tendono a coincidere: man mano che si procede nell’azione, i nostri compagni vengono progressivamente eliminati, finché non rimaniamo soli o in compagnia di un partner. Inoltre, come in un videogame, la narrazione si conclude con lo scontro con il boss – la nemesi, l’aberrazione, l’Altro. Tale incontro/scontro è preceduto da una serie di combattimenti con creature letali, ma non indistruttibili. Dato che ogni esperienza videoludica costituisce una forma di apprendimento just-in-time, si presume che nel momento in cui dovremo fronteggiare il mostro finale avremo acquisito la competenza e l’abilita' necessarie per sconfiggerlo.
Sul piano estetico, il punto di vista è analogamente ristretto/ridotto/limitato per via dei limiti strutturali della camera che riprende l’azione. In questo senso, Cloverfield può essere paragonato a un action in terza persona – si pensi a Gears of War (nota5) – nel quale un operatore virtuale e invisibile riprende con l’ausilio di uno strumento tecnologico (una handicam) la performance del protagonista. Tale ripresa è persistente ma non continua (ovvero: si verificano tagli di ripresa in svariate occasioni). Non solo: la durata media delle inquadrature è sorprendentemente lunga per una pellicola hollywoodiana. A fronte di una media di 2-5 secondi per inquadratura, in Cloverfield la media è di 25 secondi. Com’è facilmente intuibile, i tagli complessivi sono nettamente inferiori alla media – meno di 200 – una cifra sorprendente considerando che negli ultimi trent’anni, il numero di tagli è aumentato esponenzialmente. In uno sparatutto in soggettiva, i tagli di montaggio sono ridotti al minimo: ergo, Cloverfield è visivamente più vicino a un FPS rispetto a una pellicola come Doom. Nessuno uscita' vivo (2005) . L’adattamento di Andrzej Bartkowiak del celebre FPS è paradossalmente assai meno videoludico di Cloverfield: se si eccettua una discutibile sequenza in soggettiva che ambisce ad emulare l’estetica del codice sorgente, Doom è un B-movie del tutto convenzionale.
Il richiamo a Doom è tutt’altro che casuale: dato che in Cloverfield l’operatore in “carne e ossa” spesso riprende l’azione dal proprio punto di vista, senza inquadrare i suoi compagni, Cloverfield presenta numerosi momenti che evocano direttamente l’estetica dello sparatutto in soggettiva. In questo genere di videogame, l’operatore controlla direttamente la macchina da presa virtuale che qui si comporta come una steadycam. In Cloverfield, per converso, l’operatore non possiede grande dimestichezza con il mezzo e le riprese sono tutt’altro che fluide, il che, oltre ad accrescere il senso di nausea (Roger Caillois direbbe ‘vertigo’) aumenta la suspense, dato che le insieme vengono inquadrate – dunque “sono” – solamente pochi istanti prima di attaccare i personaggi (mi riferisco, in particolare, alla sezione della metropolitana o all’arrampicata sul grattacielo in costruzione/distruzione, che fa molto Donkey Kong). Vorrei portare l’attenzione dei lettori su un dettaglio significativo: come abbiamo visto in precedenza, il nome dell’operatore in Cloverfield è Hud. Com’è noto, HUD è l’acronimo di “Head-Up Display”, un’interfaccia visuale trasparente che presenta informazioni utili senza tuttavia ostruire la vista dell’utente. Questo tipo di interfacce visuali sono state originariamente sviluppate per l’aviazione militare, ma, come sono successivamente state applicate in altri contesti e per altri media, videogames in primis.
Un altro elemento iconografico che legittima l’analogia tra cinema e videogame riguarda la scelta delle locazioni. Tralasciando il lungo preambolo, l’azione in Cloverfield si sviluppa in scenari urbani che acquistano un carattere perturbante dopo l’ingresso sulle scene dell’anomalia. Ora, chiunque abbia un minimo di dimestichezza con gli spazi videoludici, si troverà a “casa” in Cloverfield. Ogni action o sparatutto in soggettiva che si rispetti prevede infatti a) un intenso combattimento nella metropolitana (si pensi a uno dei capitoli più avvincenti di F.E.A.R. Perseus Mandate, ma anche ai livelli iniziali del sottovalutato Timeshift, per tacere degli innumerevoli episodi degli FPS della serie Tom Clancy) – l’oscurità naturale della metropolitana richiede l’attivazione di un visore a infrarossi, un’altra marca di riconoscimento tipica del videogame (ancora una volta, Rainbow Six); b) una sezione di volo in elicottero (che permette al giocatore di godersi da una posizione privilegiata e sopraelevata la spettacolare distruzione dello scenario sottostante – a cui spesso contribuisce direttamente con una mitragliatrice – tornano alla mente i vari momenti di Tom Clancy’s Rainbow Six Vegas, ma anche Call of Duty 4 e Blacksite: Area 51), c) sparatorie intense tra le strade cittadine. Detto altrimenti, Cloverfield propone un melange di luoghi comuni dell’immaginario videoludico e cinematografico.
A questo proposito, si potrebbe far notare che Cloverfield e 28 settimane dopo sono praticamente lo stesso film, ambientato in due città differenti. Le scene di distruzione degli spazi urbani da parte dell’aerenautica militare per contenere il pericolo (il mostro/il contagio) sono indistinguibili; l’attraversamento di spazi “compromessi” (la metropolitana, i parchi, i grandi condomini ballardiani) interscambiabili, gli esiti (l’entropia, la sconfitta degli esseri umani) identici. Come direbbe Richard Grusin (2004, 2008), le narrazioni dell’apocalisse – sulla carta come sugli schermi, lineari o interattive – non hanno altra funzione se non quella di prepararci all’apocalisse prossima ventura.
Last but not least, piano ideologico, Cloverfield non rappresenta tanto una allegoria dell’undici settembre duemilauno – l’interpretazione più banale e prevedibile in assoluto – quanto la bieca risposta dell’establishment americano a The Host, eccellente critica all’arrogante Colosso in declino. Se nel capolavoro di Bong Joon-ho i responsabili dell’ecatombe sono gli irresponsabili militari americani – veri “mostri” – qui il “mandante”, guarda caso, è una spregiudicata multinazionale nipponica (nota 6). Come dire: ora siamo pari. In realtà, The Host è uno splendido racconto, Cloverfield è pura tecnica supportata da una brillante strategia di promozione.
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Stile di citazione
Questo articolo e' stato pubblicato su [duel], Marzo 2008.
Per citarlo: Matteo Bittanti (2008), "Estetiche della contamEstetiche della contaminazione: Cloverfield è un videogame", [duel], marzo, pp. 43-45.
Riferimenti bibliografici
Bittanti. M., 2004, Tempo di gioco/Tempo in gioco", C:Cube 5, Special Issue: Game Culture (Bevivino Editore, 2004). Disponibile in rete.
Bittanti, M. 2008 “Il cinema nei videogiochi? Analogie improprie, forme di rimediazione e convergenze parallele” in Luciano De Giusti (a cura), Immagini Migranti. Forme intermediali nel cinema contemporaneo, Bologna, Clueb, 2008.
Bordwell, D., Thompson, K., 2001, Film Art: An Introduction, New York, McGraw-Hill; trad. it. 2003, Cinema come Arte. Teoria e prassi del film, Il Castoro, Milano.
Caillois, R., 1958, Les jeux et les hommes, Paris, Gallimard; trad. it. 2002, Gli uomini e i giochi. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano.
Fraschini, B., 2003, Metal Gear Solid. L’evoluzione del serpente, Milano, Edizioni Unicopli.
Grusin, R., 2008, “1/20/09”, in Rolling Stone, agosto.
Grusin, R. 2004, “Premediazione”, in Duellanti, n.8, luglio.
Note
1 - Per ulteriori informazioni sulla nozione di cut-scenes, cfr. Matteo Bittanti “Il cinema nei videogiochi? Analogie improprie, forme di rimediazione e convergenze parallele” in Luciano De Giusti, Immagini Migranti. Forme intermediali nel cinema contemporaneo, Bologna, Clueb, 2008.
2 - L’esempio classico è Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty di Hideo Kojima (Konami 2001). Per un’analisi dettagliata, cfr Fraschini, 2003.
3 - Per ulteriori informazioni, cfr. "Tempo di gioco/Tempo in gioco", C:Cube 5, Special Issue: Game Culture (Bevivino Editore, 2004).
4 - Non è un caso che il primo computer game della storia, Spacewar! (1962), sia una simulazione di combattimento spaziale.
5 - Che a sua volta rimediava La guerra dei mondi di Spielberg – i tre testi – Cloverfield, Gears of War e La guerra dei mondi presentano una premessa analoga.
6 - Si noti che queste informazioni sono comunicate in forma contestuale, per mezzo di siti internet fasulli e videoclip virali su YouTube. Alcuni lo chiamano marketing, altri “narrazione transmediale”.
Link di approfondimento
Damiano Colacito - Face of Doom (2007) - quando l'HUD diventa una forma di espressione artistica
Doom: il medium videoludico ce l'ha più grosso (14 marzo 2006) di Matteo Bittanti
Doom: una lettura videoludica (16 marzo 2006) di Matteo Bittanti
Notes from the Underground: Doom, games and movies (17 novembre 2006) - alcune riflessioni sull'adattamento cinematografico di Doom (in Inglese)
A proposito del mio messaggio precedente: ho letto che e' stato registrato il dominio cloverfieldgame.com, il che lascia presagire un videogioco basato sul film oppure sul suo seguito (oppure ancora su un ARG online!). In effetti un film come Cloverfield sembra ispirarsi direttamente all'estetica dei videogiochi, ma lo stesso vale per 28 giorni dopo. Mi chiedo come mai non sia mai stato creato un videogame basato sul film di Danny Boyle: considerando il successo dei giochi con gli zombie tipo Resident Evil secondo me e' solo questione di tempo. ciao!
Scritto da: Destroyer | 02/04/08 a 11:07
Forse alcuni paragoni appaiono un po' forzati (es: Cloverfield - 28 giorni dopo), ma altre intuizioni semplici e profonde mi hanno colpito (sicuramente è sfuggito ai più che l'operatore si chiami proprio Hud).
Davvero molto bello il lavoro di "supporto iconografico", dovrebbe avere più risalto nell'impaginazione.
A questo proposito (magari sarò di parte), le immagini che ho ritenuto più "iconografiche" e mi hanno più affascinato non sono quelle tratte dalle scene di Cloverfield ma dalle sequenze videoludiche che hai voluto scegliere.
Scritto da: Mario Morandi | 07/04/08 a 06:35
Wow, stavo scrivendo sullo stesso identico argomento per TFP, per fortuna ho letto questo in tempo.
Bella lì, segnalo anche quest'articolo soprattutto perché contiene la più bella definizione di questo fenomeno:
Mouselook Cinematography.
http://www.gameslol.com/2007/02/21/children-of-men-is-totally-like-half-life-2/
Aloha e complimenti per questo nuovo progetto!
Scritto da: Emilio Bellu | 13/04/08 a 16:39