Il numero di luglio/agosto 2010 di Duellanti include un pezzo di Filippo Vanzo, autore di Killer 7: Anatomia di un videogioco (2010) dal titolo "Il videogioco d'autore esiste?" che potete leggere qui:
Killer7: Istruzioni per l’uso
Filippo Vanzo
Totale mancanza di accondiscendenza, atteggiamento sprezzante e beffardo nei confronti delle convenzioni del medium, lucida follia nella sua mise-en-scène, ecco che cosa attende il giocatore che abbia la (s)fortuna di imbattersi in killer7, videogioco action-adventure nato dalla mente di Suda Gōichi, sviluppato da Grasshopper Manufacture ed edito da Capcom nel 2005 per GameCube e PlayStation2. Ma perché, qualcuno potrebbe domandarsi, sprecare il proprio tempo per cercare di analizzare un (questo) videogioco? Perché andare a grattare la superficie disimpegnata e leggera del medium, sperando di trovarvi sotto qualcosa di più di una manciata di ore di svago. Forse per via della densità allegorica e concettuale con cui killer7 si/ci interroga sull'eredità storico-culturale del Giappone ab Restaurazione Meiji (1868), e del suo ambivalente rapporto/dipendenza dagli Stati Uniti d'America. O forse per l'ampiezza e la ricchezza dei richiami dal sapore squisitamente pop, dagli ammiccamenti alle cinematografie di genere di Quentin Tarantino e di Suzuki Seijun alle bizzarrie del filone tokusatsu giapponese (es. Mighty Morphin Power Rangers), dal rock alternativo degli Smiths di Morrissey agli scontri uno-contro-uno di Street Fighter II: The World Warrior (Capcom, 1991). Forse perché, in fin dei conti (ed era pure ora), il videogioco può essere molto più che uno svampito divertissement per brufolosi adolescenti e quarantenni trendy (Wii anyone?).
Ma ancor prima di chiederci perché, ci si potrebbe similmente domandare che cosa significhi, in termini pratici, studiare il videogioco. Si potrebbe iniziare col dire che occuparsi di game studies oggi vuol dire affacciarsi su un mondo in fieri che, proprio alla luce della propria immaturità, se da una lato soffre di scarsa affermazione accademica (con le felici eccezioni di Stati Uniti e Nord Europa) e di strumenti deontologici ancora imperfetti (quando non improvvisati), dall'altro sguazza in una sorta di wild west intellettuale che apre la porta ad approcci, discipline, competenze e metodologie tra i più disparati, spaziando dai media studies alla sociologia, dalla mediazione culturale fino alla semiotica (cfr. MAIETTI, 2004). Gran parte di questa bagarre è dovuta al fatto che l'intellighenzia (o presunta tale) videoludica non non è ancora giunta a un punto d'incontro su una circoscrizione definitiva e condivisa del proprio oggetto di studio. Studiamo i videogiochi ma non sappiamo (ancora) che cosa siano di preciso.
In Italia la situazione è aggravata dalle deprimenti prospettive riservate alla ricerca universitaria e dalla cronica inadeguatezza linguistica (il settore è quasi totalmente anglofono) che limita la diffusione dei comunque pregevoli contributi nostrani. Abbondanti sono infatti le iniziative votate alla promozione della cultura videoludica, sia “ufficiali” (AESVI, AIOMI, Archivio Videoludico) che amatoriali (come la webzine Babel, già Ring).
Tra le sfide più intriganti che i game studies sono chiamati ad affrontare c'è sicuramente quella della definizione dell'autorialità videoludica. In un medium che, similmente al cinema, richiede gli sforzi congiunti di numerose figure professionali per dare vita alle proprie opere, l'interattività (altro termine cardine) gioca un ruolo fondamentale nella sovrapposizione tutta videoludica delle figure di Autore e Lettore (ECO, 1979). Da questa problematica, soltanto lambita dal punto di vista accademico, nasce il seguente interrogativo: si può parlare di “videogioco d'autore”, così come si parla di cinema d'autore? E se sì, come si può riconoscerlo? La teoria che mi sento di appoggiare, che pur non vuol essere né esaustiva né incontrovertibile, individua alcuni tratti ricorrenti del videogioco d'autore: preponderanza dell’esperienza e del valore comunicativo sull’intrattenimento e il divertimento, spessore delle tematiche affrontate, indipendenza dalle convenzioni videoludiche, presenza di una figura autoriale (seppur con le problematiche di cui sopra). Vale la pena di sottolineare come negli ultimi anni, con l'avvento della digital delivery (distribuzione digitale) e la diffusione della banda larga, molti sviluppatori di piccole dimensioni e/o indipendenti abbiano potuto godere di una visibilità insperata, favorendo la sperimentazione e l'utilizzo del videogioco come strumento per esprimere un pensiero prima che per intrattenere. Si pensi ad esempio a piccole gemme di lirismo videoludico come Flower (thatgamecompany, 2009) e Braid (Jonathan Blow, 2008), o alle caustiche critiche socio-politiche di Super Columbine Massacre RPG! (Daniel Ledonne, 2005) e September 12th (Newsgaming, 2003). Anche nell'ambito del videogioco “commerciale” sono emersi sempre più game designer che hanno via via preso coscienza delle potenzialità offerte dal medium, e che hanno sviluppato un proprio stile fatto di temi ricorrenti, messaggi e intenti più o meno dichiarati che vanno ad affiancarsi alla componente più puramente ludica delle loro opere.
In questo contesto si muove l'istrionico Suda Gōichi, director, sceneggiatore e produttore di killer7, nonché fondatore di Grasshopper Manufacture, il quale riassume la sua vocazione videoludica nello slogan “Let's punk”, cioè, per citare il game designer nipponico, «distruggere le idee preesistenti e creare qualcosa di nuovo, originale». Le sue fonti d'ispirazione dichiarate sono molteplici e transmediali, da Éric Chahi (creatore della seminale avventura Another World del 1991) agli Smiths, da Alejandro Jodorowsky a Franz Kafka(!), per tacere della razzia perpetrata ai danni dal patrimonio storico videoludico, deriso/omaggiato/decostruito con sistematica perseveranza.
Il mio augurio è che sempre più game designer decidano di usare il videogame come strumento espressivo, abbracciando l'appello lanciato da Auriea Harvey e Michaël Samyn (membri fondatori della software house Tale of Tales) nel loro Real Time Art Manifesto (2006):
Stop making games.
Be an author.
L'autore: Filippo Vanzo è l’autore di Killer 7. Identikit di un videogioco d’autore (Edizioni Unicopli, 2010), tredicesimo volume della serie Ludologica.
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